L’arte della vinificazione: storia del nostro palmento del 1900

Nel cuore di Etna-Mare, tra i terrazzamenti che digradano verso il mare, si erge una testimonianza preziosa del passato: il nostro palmento dei primi del Novecento. Questa struttura, sapientemente restaurata ma mantenuta nella sua funzionalità originaria, non è solo un edificio, ma un libro di pietra che racconta l’arte millenaria della vinificazione etnea e la vita di intere generazioni che hanno saputo trasformare l’uva in nettare degli dei.

La storia del nostro palmento inizia all’alba del XX secolo, quando i bisnonni dell’attuale famiglia decisero di comprare questa struttura. La scelta del luogo non fu casuale: la posizione, leggermente sopraelevata rispetto ai vigneti circostanti, permetteva di sfruttare la forza di gravità per il trasporto dell’uva e dei mosti, riducendo la fatica del lavoro manuale.

Entrando nel palmento, si rimane colpiti dalla genialità di un’architettura pensata per ottimizzare ogni fase della vinificazione. Le due vasche principali, scavate nella pietra lavica, raccontano la prima parte del processo: la vasca di pigiatura, dove l’uva veniva pressata con i piedi nudi secondo la tradizione, e quella di fermentazione, dove il mosto iniziava la sua trasformazione magica.

La disposizione su livelli diversi non è casuale: sfruttando la forza di gravità, il mosto scorreva naturalmente da una vasca all’altra attraverso canali scavati nella pietra. Questo sistema, apparentemente semplice, rivelava una profonda conoscenza delle leggi fisiche e della chimica della fermentazione.

La “ghianca” rappresenta forse l’elemento più affascinante dell’intero palmento. Questo antico sistema di torchiatura, composto da una grande pietra lavica chiamata “petra du conzu” e da un meccanismo a vite senza fine collegato a un tronco di quercia, permetteva di estrarre fino all’ultima goccia di mosto dalle vinacce. La forza necessaria per azionare il sistema richiedeva il lavoro coordinato di due o più uomini, trasformando la torchiatura in un momento di condivisione e collaborazione.

La vendemmia era il momento culminante dell’anno agricolo, un vero e proprio rito collettivo che coinvolgeva l’intera famiglia e spesso anche i vicini. All’alba, quando la rugiada ancora bagnava i grappoli, iniziava la raccolta. Gli uomini tagliavano i grappoli con forbici affilate, mentre donne e bambini li sistemavano nei tradizionali “cufini” e “panari”, ceste di vimini intrecciate a mano.

Il trasporto dell’uva al palmento era un momento di festa: i carri trainati da muli si snodavano lungo i sentieri etnei, carichi di grappoli profumati e di speranze per la nuova annata. Una volta giunti al palmento, iniziava la fase più spettacolare: la pigiatura.

Uomini e ragazzi, con i piedi accuratamente lavati, entravano nella vasca di pigiatura e iniziavano a danzare sull’uva al ritmo di antiche canzoni popolari. Questo non era solo un metodo di lavorazione, ma un momento di condivisione sociale che rafforzava i legami comunitari. Il succo dolce che sgorgava dai grappoli schiacciati rappresentava la promessa di vino da condividere durante i lunghi mesi invernali.

Dopo la pigiatura, uva schiacciata e mosto venivano trasferiti nella vasca di fermentazione, dove iniziava il miracolo della trasformazione. I lieviti naturali presenti sulla buccia dell’uva iniziavano il loro lavoro, convertendo gli zuccheri in alcol. Era un processo che richiedeva attenzione costante: ogni giorno bisognava “rompere il cappello”, mescolando le bucce che affioravano in superficie per evitare che il mosto si ossidasse.

Dopo alcuni giorni di fermentazione tumultuosa, il nuovo vino veniva trasferito nei tini situati nel livello inferiore del palmento. Qui, al fresco e al buio, continuava la fermentazione lenta che avrebbe definito il carattere finale del vino.

Il cuore del palmento è rappresentato dalla grande botte in legno di castagno, capace di contenere circa 5600 litri di vino. Questa maestosa struttura, costruita senza l’uso di chiodi ma solo con cerchi di ferro e l’abilità del bottaio, rappresentava il tempio dove il vino completava la sua maturazione.

Il castagno non fu scelto a caso: questo legno, ricco di tannini naturali, conferiva al vino struttura e longevità, mentre la sua porosità permetteva una micro-ossigenazione che arricchiva il bouquet. La botte veniva riempita utilizzando la “quartana”, un recipiente di rame da dieci litri che passava di mano in mano tra tre operai in una catena umana che rappresentava l’ultima fase del lavoro collettivo.

Oggi, il nostro palmento ospita anche un museo etno-antropologico che conserva gli strumenti della civiltà contadina: dalle forme del calzolaio ai sacchi per il trasporto dell’uva, dalle chiavi antiche alle damigiane panciute, dall’aratro alle zappe, ogni oggetto racconta una storia di fatica, ingegno e amore per la terra.

Tra i pezzi più preziosi, la “statia” (la bilancia per pesare l’uva), “u tummulu” (l’unità di misura per i cereali), “u furcuni” (il forcone a tre denti), la lanterna a olio per lavorare anche di notte, e gli splendidi cesti di vimini “da uomo” e “da donna”, diversi per dimensione e decorazione secondo l’uso tradizionale.

La visita al nostro palmento non è solo un tuffo nella storia: è un viaggio nell’anima della Sicilia contadina, dove ogni strumento, ogni pietra, ogni angolo racconta di un tempo in cui il rapporto con la terra era sacro e la trasformazione dell’uva in vino rappresentava uno dei miracoli quotidiani che davano senso alla vita.

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